venerdì 26 dicembre 2008

.. Lo sfogo amaro e banale di un coglione in più



Ad essere sinceri le feste di Natale non mi piacciono affatto, se non fosse che uno ha del tempo per riposarsi un pò non andando al lavoro il resto lo trovo deludente ed amaro.



Mi disturba quest' obbligo al divertimento, mi amareggiano le aspettative deluse e la caratteriale mediocrità di quelli che si sentono obbligati a fare un regalo e risolvono con un oggetto qualsiasi... perdendo un occasione fantastica per dimostrare a chi si vuole bene, quanto è importante e ricordato, riducendolo ad un gesto obbligato o in performances in equilibrio tra bon ton e genialita in economia domestica, oppure tanto peggio, l' ennesima occasione per poter mostrare la propria virilità economica.

Odio quando facendo la conta degli invitati emerge la paura del tredicesimo a tavola, vivendo empaticamente l'imbarazzo del quattordicesimo incluso o la solitudine del tredicesimo rifiutato.



Nonostante alcuni "missionari" che generosamente si sforzano allo spasimo profondendo lavoro, danaro ed energie tentando creare la festa perfetta non vedo ambienti rilassati e felici dove quello che realmente conta è stare assieme e scambiarsi affetto, ma solo ennesime occasioni per esagerazioni gastronomiche, quando mi guardo intorno colgo più tensioni che gioiosità o manifestazioni di serenità.

Del resto non so di cosa mi meraviglio visto che nonostante i quotidiani bombardamenti mediatici che ci confermano che siamo in una crisi economica mondiale di dimensioni apocalittiche, la fame che i nostri antenati vivevano quotidianamente, come ci ricordano le pellicole in bianco e nero dei film di Totò, è stata soppiantata da sensazioni preanoressiche stimolate dalle costose diete ipocaloriche autoimposte, è quindi normale che invece della gioia provocata dalla soddisfazione del festoso e festivo condiviso ingozzo sentiamo il peso dei sensi di colpa causati dal regime tradito.

....e poi c'è il triste peso degli assenti....... con i ricordi e le nostalgie che aleggiano bencelati da labbra che sorridono ma percepibili negli sguardi malinconici, nascosti appena sotto l' apparente, spessa e placida superficie fatta di colori, sapori e festosi rumori.



Per fortuna ci sono i bambini, almeno per loro (quelli piccoli e benestanti), il Natale rimane una festa dove, l'aspettativa del regalo scatena entusiasmi veri e sinceri, però anche qui mi dispiace vederli sempre piu soli , persi tra masse di adulti iperattenziosi, ed i tanti e ricchi regali non sono più finalizzati a facilitarne lo stare assieme ad altri bambini ma sono diventati ingegnosi e tecnologici strumenti per aiutarli a stare meglio in compagnia di se stessi.



Come lo vorrei io il Natale? Lo vorrei pieno di sentimenti, da celebrare in un luogo semplice, senza inviti ed aperto a tutti, senza padroni di casa e senza ospiti, dove tutti portano piatti da condividere e si spartiscono il lavoro del imbandire e del ripulire, dove si fanno domande non dettate dalla curiosità ma dall'interessamento, domande sincere dove le risposte sono date con entusiasmo, dove i regali sono sentiti e pensati col cuore, un regalo che può essere anche una lettera piena di sinceri e gratuiti sentimenti capaci di riempire gli occhi sia di chi la riceve e sia di chi la da di lacrime emozionate, un Natale con almeno più di due bambini che si rincorrono giocando, litigando, mostrandosi e condividendo i regali ricevuti.

Un Natale utopico? forse.



Ogni volta mi prefiggo e mi prometto che quello prossimo sarà un Natale cosi, differente, ma non ci riesco mai ad organizzarlo, un po per pigrizia, un po per non dispiacere qualcuno ma molto anzi troppo per vigliaccheria.



guido

giovedì 18 dicembre 2008

il mio dolore

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C'è un dolore che non scordo
che ogni tanto inaspettato sboccia

e tutto incrina,
..i petali di cuoio che gli ho costruito sopra si dissolvono .
E' un dolore strano, brucia ma consola duole ma rende sensibili .
Strana la vita,

ci sfugge
come la coda al cane che se la rincorre.
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venerdì 21 novembre 2008

Da : mahmag.org Gli Shahsevan: Nomadi! Banditi temibili, audaci e fieri


Farian Sabahi
Farian Sabahi Giornalista e scrittrice, ha studiato a Londra e Bologna, e insegna al master sull'immigrazione della Scuola di Direzione Aziendale dell'Università Bocconi di Milano. È autrice dei volumi Storia dell'Iran, The Literacy Corps in Pahlavi Iran, La pecora e il tappeto: economia tribale in Azerbaigian, ha pubblicato numerosi saggi, scrive sull'Islam e il Medio Oriente per Il Sole 24 Ore e trasmette su Radio Svizzera, Radio 24 e Radio Popolare.Fonte:Internet
«Sono figlia di un musulmano. Mio padre non mi ha fatto mai mettere il velo. Né a me, né a mia madre. Nemmeno alle mie zie iraniane che negli anni Settanta seguivano la moda italiana e francese, avevano le unghie laccate di rosso e pettinature che imitavano le dive del cinema. A impormi il velo per la prima volta sono stati gli ayatollah iraniani nel 1997, quando sono andata a trovare la nonna paterna molti anni dopo la Rivoluzione».Nata e cresciuta in Italia da madre piemontese e padre iraniano, Farian Sabahi è potuta entrare nelle moschee a intervistare i fedeli, cui ha voluto dare voce. Emerge come l’Europa offra ai musulmani l’opportunità di vivere la propria fede in una società democratica e laica. Non sempre, però, quest’opportunità è colta dagli immigrati, alle prese con la quotidianità e con le difficoltà nell’affrontare usi e costumi diversi.Bibliografia SinteticaLa pecora e il tappeto. I nomadi shahsevan nell'Azerbaigian iraniano, Ariele, 2000Storia dell'Iran, Bruno Mondadori, 2003Islam: l'identità inquieta dell'Europa. Viaggio tra i musulmani d'occidente, Il Saggiatore, 2006Reportage Persi nell'IranI pastori erranti sono più di un milione, divisi in 96 tribù. Con la vecchia Persia erano in lotta, oggi vivono ai margini. Figli d'una civiltà affascinante e segreta. Nascosta come le trame di un tappeto.di:Seyed Farian SabahiQuando la mia bisnonna Zoleikha abitava ad Ardabil, accanto al Balikhly Chay (il torrente della trota dorata), i nomadi della confederazione Shahsevan, della regione di frontiera dell'Azerbaigian iraniano, si erano abbattuti sulla città come un flagello, armati fino ai denti e in groppa a destrieri velocissimi, violando e saccheggiando le abitazioni. Piangendo la sorte del padre, capo dei mercanti del bazar derubato di ogni suo bene, Zoleikha ricordava il rumore assordante degli zoccoli dei cavalli in corsa, le grida della gente che fuggiva in ogni direzione, le suppliche e le invocazioni di misericordia. Ma tutto era stato inutile di fronte a quei banditi spietati. Nelle serate particolarmente fredde, grandi e bambini si infilavano sotto al korsi per scaldarsi presso il braciere, coperto da un tavolo basso rivestito da trapunte e tessuti pesanti. E Zoleikha raccontava di quando i banditi rubarono un tappeto senza accorgersi che vi era avvolto un neonato addormentato. I nomadi Shahsevan tornarono nella notte, incuranti della bufera, per restituire il bimbo alla madre in lacrime, riportandole come risarcimento anche tutto ciò che avevano sottratto. Tramandate di generazione in generazione, le storie di Zoleikha descrivono gli Shahsevan come i protagonisti di una fiaba: banditi temibili, audaci e fieri, abituati a vivere in assoluta libertà. Tuttora costituiscono uno dei gruppi nomadi dell'Iran, dediti alla pastorizia. L'allevamento di ovini e caprini consente lo sfruttamento di territori marginali e la produzione di carne per il mercato domestico, nel rispetto della famiglia e di un'organizzazione sociale tradizionale. Tenuto conto che la popolazione attuale della Repubblica Islamica dell'Iran è di 62 milioni, quanti sono i nomadi? E come vivono? Secondo gli ultimi dati disponibili, risalenti al 1987, sono 1.152.099, suddivisi in 180.223 famiglie e in 96 tribù, cui si aggiungono 547 clan indipendenti. Oltre agli Shahsevan, i gruppi nomadi più famosi sono i Curdi, i Baluci, i Bakhtiari, i Luri, i Qashqai, i Khamseh, i Turcomanni e i Basseri. Censirli non è un compito facile, considerato che con l'avvicendarsi delle stagioni si spostano, assieme alle greggi, per almeno 500 chilometri, sempre alla ricerca di prati rigogliosi, non contesi da altri pastori. Occorre poi tenere presente che alcune tribù sfuggono ai controlli governativi, perché vivono in aree difficilmente accessibili. La vita dei nomadi non è cambiata di molto con il passare dei secoli. Le innovazioni tecnologiche hanno comunque portato qualche beneficio. Ormai, vari gruppi spostano le greggi con i camion. Si servono di rimorchi anche per trasportare le bestie nella capitale e nelle altre città principali, dove avviene la macellazione. Da buoni levantini, cercano ovviamente di concludere la vendita nel periodo in cui la domanda di carne è alta, ovvero attorno alle festività di Noruz, il capo- danno del calendario iraniano, di origine preislamica, che coincide con il nostro solstizio di primavera. Da quando ci sono i camion, non si rischia più la pelle sulle montagne. Le vittime erano bambini e anziani, ma anche le caprette più avventurose che, da certi picchi, non riuscivano più a ricongiungersi al gruppo. Anche se, in Iran e nel resto del Medio Oriente, i nomadi si avvantaggiano delle nuove tecnologie, la loro società rimane molto tradizionale. Eppure, non tutti i gruppi vantano una struttura tribale, dove per tribù si intende un'organizzazione sociale antitetica a quello di uno Stato centralizzato. Per esempio, nel Fars, la regione centrale dell'Iran, i Qashqai sono nomadi e organizzati in tribù; la seconda caratteristica li accomuna ai Mamasani, che però sono sedentari. Un caso a sé sono poi i Komachi dell'area di Kirman: conducono una vita nomade pur non avendo una struttura tribale. Questo anche perché non hanno mai attirato l'attenzione del governo, e quindi non sono mai stati coinvolti nelle politiche di sedentarizzazione attuate dagli scià della dinastia Pahlavi (1925-1979). Sebbene molti sovrani dell'Iran avessero origini tribali o fossero saliti al trono grazie all'aiuto di una qualche confederazione, in Iran la relazione tra Stato e nomadi è sempre stata caratterizzata da tensioni. Gli scià Pahlavi portarono avanti le loro politiche anche attraverso l'esilio dei leader tribali più importanti. Per esempio Malek Mansur, uno dei capi ereditari dei Qashqai, fu costretto a trascorrere otto anni all'estero. Si laureò in Agraria all'Università di Reading, nel Regno Unito, e poi in Giurisprudenza a Oxford. Tornò in patria solamente all'inizio degli anni Cinquanta. La sua storia fu narrata al National Geographic Magazine da una coppia di americani che, per un periodo, erano stati suoi ospiti. Dai loro racconti emerge il ritratto di un eccellente padrone di casa. Malek offrì alla coppia tutti i "lussi" della vita tribale, dal caviale a colazione alla Coca Cola in casse di ghiaccio, trasportate a dorso di mulo attraverso i pascoli estivi. Negli anni Sessanta, i documenti ufficiali non riconoscevano nemmeno l'esistenza di tribù nomadi: l'Iran doveva diventare uno Stato moderno e civilizzato, e la presenza di popolazioni non stanziali era non solo incompatibile con questo scopo, ma addirittura disonorevole. Una massiccia propaganda governativa fu avviata allo scopo di denigrare le tribù. Ma gli stranieri che, in quegli anni, trascorsero qualche tempo sotto le tende dei nomadi dell'Iran fecero notare l'assenza di malattie, la salubrità della vita all'aria aperta e le condizioni igieniche accettabili. Ogni mattina pentole e padelle venivano trasportate al torrente e strofinate con la sabbia, poi lasciate in acqua bollente per diversi minuti. Il latte veniva coperto mentre si raffreddava, e il pavimento della tenda adibita a cucina veniva scopato più volte al giorno con rametti. L'unico vasellame a non essere lavato quotidianamente era la malconcia pentola di pietra usata per preparare lo yogurt. In seguito al boom petrolifero della metà degli anni Settanta, l'attività di pastorizia dei nomadi iraniani venne minacciata dall'aumento delle importazioni di carne e prodotti caseari. Le forniture provenienti dall'estero non soddisfacevano però del tutto la domanda: il governo importava infatti carne di vitello, ma le famiglie continuavano a preferire l'agnello di produzione domestica, proveniente quasi esclusivamente dai pascoli dei nomadi. Queste politiche impoverirono comunque le tribù, obbligandole a una vita stanziale: dovettero insediarsi in villaggi o spostarsi in massa nelle città. Mohammad Reza Shah aveva le idee chiare: l'Iran doveva diventare un Paese moderno, e la vita tribale restare un ricordo vivo solo nel folclore. Nel 1977 la splendida città di Isfahan divenne teatro di un festival popolare, che avrebbe dovuto celebrare la sconfitta dei nomadi e delle altre minoranze da parte del regime. Gli spettatori vennero intrattenuti con danze in genere riservate ai matrimoni e ad altri eventi sociali. Estrapolati dal loro contesto, eseguiti da fanciulle truccate in modo vistoso, i balli si tradussero in una messa in scena di cattivo gusto, scatenando le ire di alcuni dei presenti di origine tribale. Con la rivoluzione islamica del 1979, la situazione cambiò. Al pari degli abitanti delle zone rurali, i nomadi non avevano partecipato al rovesciamento dei Pahlavi. Si era trattato infatti di un fenomeno prettamente urbano, che aveva preso piede nelle moschee e nei bazar. Abituate a combattere, le tribù credevano nelle capacità militari dell'esercito dello scià, e accolsero con diffidenza la notizia del crollo della monarchia. Salito al potere, l'Ayatollah Khomeini definì i nomadi "tesori della rivoluzione" e "quarta forza armata", per aver sempre ricoperto l'importante ruolo di difesa dei confini nazionali. La rivoluzione del 1979 portò quindi a una riabilitazione delle tribù, proprio perché emarginate e oppresse dal regime precedente; un po' come accadde ai mullah, la classe religiosa musulmana. Nonostante la sistematica opera di detribalizzazione messa in atto da Reza Shah e da suo figlio Mohammad Reza Pahlavi, ancora oggi in alcune parti della Repubblica Islamica sopravvive un'organizzazione sociale tipica della tribù. Cambiano i tempi, ma i nomadi continuano a trascorrere la calda estate sui monti e l'inverno in regioni più temperate. Il ritmo è dettato dalle stagioni, dai matrimoni, dalle circoncisioni dei neonati di sesso maschile, dall'accoppiamento dei capi di bestiame, dalla nascita degli agnelli, dalla tosatura, dalla preparazione e tintura della lana con prodotti vegetali. La lana serve a tessere coperte o tappeti da stendere sui pavimenti delle tende, per impedire all'umidità di penetrare nelle ossa. Oppure per realizzare le sacche con cui i nomadi trasportano i loro beni durante le migrazioni stagionali; le selle per muli e cavalli; i sofreh, semplici tessuti rettangolari utilizzati come tovaglie. Ed è forse per i tappeti e per gli altri prodotti tessili, ormai ricercatissimi dagli occidentali, che i nomadi iraniani sono usciti dal limbo in cui li aveva relegati la storia, assurgendo a simbolo di un popolo.Due cuori e una tenda Dare e prendere, vendere e comprare, sono i termini usati dai nomadi Shahsevan nell'organizzare un matrimonio. Delle transazioni fanno parte il prezzo della sposa, la dote differita e il baule nuziale. Pagato dal ragazzo al suocero, il prezzo della sposa è il corrispettivo della verginità della fidanzata; può essere revocato se lei non è più illibata, ma non se è sterile o se muore prematuramente. Soltanto presso alcune tribù Shahsevan e nei matrimoni al di fuori del gruppo, il prezzo della sposa consiste in uno o due cammelli oppure 10-20 pecore (raramente denaro) consegnati alla coppia dopo le nozze. Per indurre il padre a concedere la mano della figlia, tra il fidanzamento e il matrimonio i genitori del ragazzo offrono oggetti di valore ben superiore al prezzo della sposa. Non è però questo a determinare l'importanza delle nozze, quanto la durata e la ricchezza dei festeggiamenti, i doni della famiglia dello sposo e il baule nuziale: custodisce le coperte, la biancheria da letto, un samovar e una lampada, e il suo valore eccede generalmente quello dei regali. La dote differita è un deterrente al divorzio: il marito dovrà pagarla solo se, un giorno, decidesse di abbandonare la moglie. Durante il primo anno di matrimonio, e comunque finché non ha partorito un figlio preferibilmente maschio, la sposa non può rivolgere parola in pubblico né al marito, né ai suoceri. Le è permesso chiacchierare con le cognate e con le altre ragazze dell'accampamento. Solo quando sarà madre, e dunque a pieno titolo membro della società femminile, i suoi rapporti in pubblico con il consorte saranno meno formali. Per almeno cinque anni lo sposo lavorerà alle dipendenze del padre o del fratello maggiore, mentre la moglie imparerà la gestione della casa. Secondo gli Shahsevan, il matrimonio è l'unico contesto in cui le relazioni sessuali sono lecite. Matrimonio significa prole, ovvero sicurezza economica, alleanze politiche e rispetto da parte della tribù. La cerimonia è tra le poche occasioni per mostrare le proprie possibilità economiche e rinnovare eventuali alleanze. Il divorzio è disapprovato. Oltre all'adulterio, l'unico motivo fondato per sciogliere l'unione è l'infertilità della donna. In questo caso, però, di solito si evita il divorzio: se le finanze lo permettono, il marito preferisce prendere una seconda moglie.

domenica 16 novembre 2008

Piano,solo


Stamani su sky ho assistito al  film Piano solo.
Non so cosa pensino i più di questo film, a me è piaciuto tantissimo.
Gli attori, la fotografia, tutto specialmente perfetto a fare da contorno ad una musica dolce e violentemente malinconica che narra la storia vera di Luca Flores geniale pianista Jazz che vive il dolore della perdita della mamma in tenera età tra l' interiorità della musica e la malattia mentale.
Nemmeno l'amore e i successi professionali che lo porteranno a suanare con i più grandi mostri sacri contemporanei della musica Jazz riusciranno ad attenuare questa dolorosa fiamma che lo divora dentro fino a portarlo al suicidio.
Nonostante tutto non riesco a considerarlo un film triste, perchè è una storia piena di sentimenti veri e forti e di alti e bassi che alla fine si compensano, come del resto è la vera genialità che quasi sempre porta con se incredibili fragilità.
Questo film per tutta la sua durata mi ha tenuto compagnia, mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo mi ha riportato le immagini di mia mamma da bambino, mi ha fatto riemergere nella memoria il viso di un amico da me molto amato che ha lo stesso nome del protagonista " Luca" e che purtroppo non vedo da tempo, mi ha fatto capire di più un mio amato parente che pure lui naviga immerso nei sentimenti cercando di trovare una risposta alle inspiegabili domande esistenziali della vita e infine mi ha fatto conoscere un grande artista ed un genere musicale che fino ad oggi mi erano sfuggiti!
guido.

giovedì 6 novembre 2008

QUALCUNO ERA COMUNISTA - GIORGIO GABER


Uh? No, non è vero, io non ho niente da rimproverarmi. Voglio dire... non mi sembra di aver fatto delle cose gravi.La mia vita? Una vita normale. Non ho mai rubato, neanche in casa da piccolo, non ho ammazzato nessuno, figuriamoci!... Qualche atto impuro ma è normale no?Lavoro, ho una famiglia, pago le tasse. Non mi sembra di avere delle colpe... non vado neanche a caccia!Uh? Ah, voi parlavate di prima! Ah... ma prima... ma prima mi sono comportato come tutti.Come mi vestivo? Mi vestivo, mi vestivo come ora… beh non proprio come ora, un po’ più… sì, jeans, maglione, l’eskimo. Perché? Non va bene? Era comodo.Cosa cantavo? Questa poi, volete sapere cosa cantavo. Ma sì certo, anche canzoni popolari, sì… “Ciao bella ciao”. Devo parlar più forte? Sì, “Ciao bella ciao” l’ho cantata, d’accordo, e anche l’“Internazionale”, però in coro eh!Sì, quello sì, lo ammetto, sì, ci sono andato, sì, li ho visti anch’io gli Inti Illimani... però non ho pianto!Come? Se in camera ho delle foto? Che discorsi, certo, le foto dei miei genitori, mia moglie, mia…Manifesti? Non mi pare... Forse uno, piccolo proprio... Che Ghevara. Ma che cos’è, un processo questo qui?No, no, no, io quello no, io il pugno non l’ho mai fatto, il pugno no, mai. Beh insomma, una volta ma… un pugnettino, rapido proprio…Come? Se ero comunista? Eh. Mi piacciono le domande dirette! Volete sapere se ero comunista? No, no finalmente perché adesso non ne parla più nessuno, tutti fanno finta di niente e invece è giusto chiarirle queste cose, una volta per tutte, ohhh!Se ero comunista. Mah! In che senso? No, voglio dire…Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no.Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il Paradiso Terrestre.Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.Qualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolica.Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche… lo esigevano tutti.Qualcuno era comunista perché “La Storia è dalla nostra parte!”.Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.Qualcuno era comunista perché prima era fascista.Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontano.Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro.Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio.Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio.Qualcuno era comunista perché la borghesia il proletariato la lotta di classe. Facile no?Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopo domani sicuramente…Qualcuno era comunista perché “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung”.Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.Qualcuno era comunista perché guardava sempre Rai Tre.Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il “materialismo dialettico” per il “Vangelo secondo Lenin”.Qualcuno era comunista perché era convinto d’avere dietro di sé la classe operaia.Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.Qualcuno era comunista perché c’era il grande Partito Comunista.Qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande Partito Comunista.Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio.Qualcuno era comunista perché abbiamo il peggiore Partito Socialista d’Europa.Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi solo l’Uganda.Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani.Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera.Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.Qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altro.Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.Due miserie in un corpo solo.


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venerdì 31 ottobre 2008

Crisi mutui: i terreni agricoli battono l'oro

I giovani di Coldiretti lanciano l'allarme speculazione. La terra è 'bene-rifugio' in tempo di crisi finanziaria

E’ allarme speculazione sui terreni agricoli che vengono scelti come bene rifugio alternativo agli investimenti piu’ tradizionali, facendone schizzare le quotazioni verso l’alto ed ostacolandone quindi l’acquisto da parte dei giovani imprenditori agricoli. L’allarme è stato lanciato dal summit dei giovani della Coldiretti a Parma convocato per discutere delle iniziative messe in campo per il settore nel tempo della crisi economica e degli allarmi sanitari.
Da una indagine Coldiretti/Swg realizzata per verificare l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale delle imprese agricole è emerso che i terreni agricoli battono l'oro nella classifica degli investimenti giudicati più sicuri dagli italiani. Alla domanda su quali siano gli investimenti reputati più convenienti, i cittadini, sottolinea Coldiretti, hanno collocato i terreni agricoli ben davanti all’oro (oltre che ai buoni postali, conti correnti e opere d’arte) e appena sotto un altro dei beni-rifugio più tradizionali come i titoli di stato. In cima alla graduatoria continua a figurare il mattone, ma il sorpasso dei campi sul prezioso metallo testimonia come l’agricoltura sia considerata dagli italiani un settore nel quale vale la pena investire per avere successo e per sviluppare un’attività imprenditoriale che, tra le altre cose, consente di stare a diretto contatto con la natura.
'Il terreno è un costo per le imprese agricole che devono crescere e svilupparsi e l’aumento delle quotazioni rischia di trasformarsi in un ulteriore onere che si somma a quello della stretta creditizia', afferma il delegato dei Giovani della Coldiretti Donato Fanelli nel chiedere misure antispeculative, 'per evitare che si alzi l’asticella del principale ostacolo all’ingresso di quei giovani imprenditori agricoli che decidono di investire, con una scelta imprenditoriale che risponde, tra l’altro, al crescente interesse per la campagna e, con esso, al bisogno di sicurezza alimentare e ambientale da parte dei cittadini, e che va in direzione opposta rispetto a chi punta su rendite fondiarie che non creano né sviluppo né occupazione'.
Dal Comitato nazionale Giovani Impresa della Coldiretti è emerso che la campagna svolge un ruolo anticiclico rispetto alle difficoltà dell’economia di carta ed è quindi necessario intervenire per rimuovere gli ostacoli che frenano il crescente interesse delle nuove generazioni, attraverso la creazione di una 'rete' diffusa e solidale di giovani imprese agricole Coldiretti dal Nord al Sud del Paese, capace di affrontare il delicato momento economico e, soprattutto, di creare opportunità di sviluppo.
In Italia, evidenzia Coldiretti, il valore aggiunto in ettari, ovvero la ricchezza netta prodotta per unità di superficie dalla nostra agricoltura, è oltre il triplo di quello USA, doppio di quella inglese, e superiore del 70% di quelli di Francia e Spagna. Secondo i dati Ismea il valore medio dei terreni acquistati con il sostegno dell’Istituto è stato pari, sottolinea la Coldiretti, a 20 mila euro a ettaro nel 2008 ma con forti variazioni che vanno da un minino di quasi 2 mila euro per ettaro ad un massimo di 207 mila euro, sempre all’ettaro, per un meleto del Trentino, anche se sul libero mercato un ettaro di vigneto nelle zone di produzione più celebri, dalla Toscana al Trentino Alto Adige, può andare da 500 mila e oltre un milione di euro ad ettaro.
Da qui la necessità, continua Coldiretti, di adottare una serie di politiche capaci di creare reale sviluppo e di 'tenere il passo' con il dinamismo degli imprenditori under 35, a cominciare dall'attuazione delle misure del cosiddetto 'pacchetto giovani'. Servono strumenti di mercato innovativi, capaci di mettere insieme pubblico e privato e di migliorare l’accesso al credito alle giovani imprese agricole, favorendo il ricambio generazionale attraverso l'adozione di prodotti destinati sia alle imprese in start up che ai passaggi generazionali. Ma anche strumenti che mitighino i rischi permettendo la libertà di scelta dell'imprenditore, come le assicurazioni e la rete di sicurezza. Oltre a ciò, le giovani imprese ritengono indispensabile creare le condizioni affinché si possa investire in formazione e ricerca in modo innovativo mettendo al centro l'impresa, ma anche una politica del territorio che privilegi la creazione di infrastrutture, a partire da quelle telematiche, senza rassegnarsi a subire passivamente gli effetti negativi della difficile situazione economica e convinti, al contrario, di avere idee vincenti per il futuro del Paese .
I giovani agricoltori rappresentano la componente piu' dinamica dell'agricoltura italiana. Secondo l'indagine della Coldiretti le aziende agricole dei giovani under 35 possiedono, infatti, una superficie superiore di oltre il 54% alla media (9,4 ettari rispetto alla media nazionale di 6,1), un fatturato più elevato del 75% della media (18.720 Euro rispetto alla media nazionale di 10.680) e il 50% di occupati per azienda in più. Inoltre, conclude la Coldiretti, le giovani leve della campagna hanno una maggiore propensione al biologico (3,7% delle aziende rispetto alla media nazionale di 2,1%), ma incontrano qualche difficoltà nell'acquisto del capitale terra che solo nel 54% dei casi è in proprietà rispetto al 74% della media nazionale.
 

Maurizio Laus
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sabato 18 ottobre 2008

www.baciadasalmas.com


Não os impeçais

Posted: 18 Oct 2008 04:31 AM CDT

A primeira vez que estive no Nordeste foi numa viagem para Fortaleza: fui de ônibus conhecendo o sertão do Piauí e Ceará. Naquelas estradas ia conhecendo o povo, conversando com eles, observando seus costumes e divagando sobre como somos tantos povos sob uma mesma bandeira.

Gente simples, gente simpática, gente antipática, gente que roncava, gente que dormia, gente que chorava, gente que sorria. Eram gente.

E nós, os chamados protestantes ou evangélicos, apontamos este povo como idólatras porque quase todos traziam ao peito Nossa Senhora ou se agarravam ao santo que mais lhe agradava. Alguns chamavam a Padre Cícero, ou como lá é conhecido: Padim Ciço. Essa gente simples que vai pela vida com uma força que desconheço e ama seu povo e sua terra.

Idólatras somos nós.

A esses eu tanto julgava! Mas conhecendo o Cristo do Sertão me bateu uma idéia. Uma dessas boas, sabe?

Você já se sentiu envergonhado em um jantar chiquérrimo? Ou se sentiu um idiota com outras pessoas falando um idioma diferente ou mesmo um assunto tão profundo que não fazia o menor sentido para você? Já parou pra pensar que gente assim, tão simples, se sente assim na presença de Deus?

A Igreja Católica criou tantos ritos e suas catedrais se tornaram tão suntuosas que gente simples se sente pequena ali. Ali é a casa de Deus, mas não é a casa deles, a deles é de chão batido e cerquinha de graveto (qualquer semelhança com os templos evangélicos não é coincidência… é reincidência… e burrice).

Aí, alguém cita que existiu um tal padre por ali e que fez milagres. Então, essa gente simples se identifica com aquele que foi gente como ele, viveu como ele e foi capaz de fazer milagre! Gente assim se identifica com uma mãe que obedeceu a Deus e agora, acha que Deus é um ser tão importante e inalcançável que pede o rogar desta mesma mãe a Deus, afinal, Deus é muito distante pra ele.

Quando chamam um santo, chamam alguém que era como nós!

Quando chamam uma santa, chamam alguém que obedeceu a Deus sem hesitar!

Quando chamam um padre, chamam alguém que amou aos outros mais que a si mesmo!

Assim, quando chamam qualquer um destes, é Aquele que responde. Afinal, foi Ele quem viveu, obedeceu, amou, morreu e realizou milagres!

Então, deixe de achar que um católico é idólatra porque chama um nome ou carrega uma imagem. Você não conhece o coração dele, mas você sabe quem conhece.

Idólatra somos eu e você, que mesmo sabendo que Jesus morreu por nós e nos deixou a herança do livre acesso ainda ficamos inventando coisas como libertação, óleos ungidos, orações fortes, unções de bichos e por aí vai. Nos enchemos de cargos e liturgias e assim pisamos na Cruz.

Quando você coloca absolutamente qualquer coisa entre a Salvação de Cristo e você, o idólatra somos eu e você.

Deixe os pequeninos irem até Jesus e só. Não os impeçais! E viva conforme Jesus viveu. Lembra que ele não julgou?

mercoledì 15 ottobre 2008

16 ottobre 1965

16 ottobre 1965 - La bandiera è gialla
Alle ore 17.40 del 16 ottobre 1965 la voce di Rocky Robert sulle note di T-Bird fa da sigla alla prima puntata di un programma radiofonico destinato a restare nella storia musicale del nostro paese. Il suo titolo, "Bandiera Gialla", fa riferimento ai drappi che segnalano le zone soggette a quarantena perché interessate da epidemie. È esplicitamente di parte. Una voce ricorda che l'ascolto è «severamente proibito ai maggiori degli anni diciotto». Ideato da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e presentato da quest'ultimo, è interamente dedicato al rock e al rhythm and blues. Per la prima volta entrano così di prepotenza nella programmazione radiofonica italiana interpreti, autori, ritmi e sonorità inusuali. La struttura prevede una sorta di concorso "autogestito". In ogni puntata vengono presentati dodici brani italiani e stranieri, divisi in quattro gruppi e votati dai ragazzi presenti in studio. Il brano che ottiene maggiori consensi diventa "disco giallo". Il titolo onorifico non dà diritto a premi particolari, salvo quello di partecipare alla trasmissione successiva. Il programma diventa rapidamente un "cult" per decine di migliaia di giovani che ascoltano brani esclusi dalla programmazione normale. A riprova del fatto che si tratta di un fenomeno collettivo, nascono numerosi i gruppi di ascolto spontanei in varie città. Il programma è destinato a rivoluzionare la produzione e il mercato discografico italiano. La presenza di brani in versione originale contribuirà a rompere il lungo isolamento della nostra musica leggera e nulla sarà come prima, come sottolineeranno di lì a qualche mese Piero Vivarelli, Sergio Bardotti e Lucio Dalla sottoscrivendo il "Manifesto per la nuova musica" che, tra l'altro, affermerà: «Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione è valida solo in quanto si evolve, altrimenti interessa i musei… il nazionalismo musicale è un nonsenso, sia dal punto di vista storicistico che dello stile…»

lunedì 13 ottobre 2008

Questa mattina mi son svegliato
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
questa mattina mi son svegliato
e ho trovato l'invasor.
Oh partigiano, portami via
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
oh partigiano, portami via,
che mi sento di morir.
E se io muoio lassù in montagna
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e se io muoio lassù in montagna
tu mi devi seppellir.
Seppellire sulla montagna,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
seppellire sulla montagna
sotto l'ombra di un bel fior.
E le genti che passeranno,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
e le genti che passeranno
mi diranno: " Che bel fior ".
È questo il fiore del partigiano,
oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao,
è questo il fiore del partigiano
morto per la libertà.

domenica 12 ottobre 2008

Quando dipingerò i tuoi occhi, avrò visto la tua anima.. (http://miportovia.blogspot.com)

Lo chiamavano Modì, sia perchè in Francia era una questione di accenti, sia perchè stranamente il nome così pronunciato ricorda la parola .. maudit che in francese significa maledetto, o simili.. ed in effetti la sua brevissima vita fù costellata da una salute cagionevole, dalla dipendenza all'alcol e alle droghe, ma il risultato di quel miscuglio di emozioni e trascuratezza, come per quasi tutti i geni, è stato l'imput per la creazione di un modo di vedere l'arte in opposizione con il cubismo, che in Picasso vide oltre che il creatore, anche la nascita di una concezione stravolta della visione della realtà...
Sto parlando di Amedeo Clemente Paul Marino Modigliani (Livorno, 12 luglio 1884 – Parigi, 2 gennaio 1920) uno dei più alti esponenti italiani della pittura e scultura, vissuti nel periodo tra l'impressionismo e il cubismo.

La sua vita è stata un vortice di emozioni, trasgressione e ribellione che lo portò poi alla morte per mano di un gruppo di balordi che da lui volevano recuperare qualche quattrino per la strada..

Di lui molti dicevano che riuscì nelle sue opere ad immortalare l'anima come nessun'altro prima era riuscito a fare; la sua modella preferita era la compagna Jeanne, che lo seguì ovunque e in qualunque situazione contro il volere della famiglia e che poi alla fine decise il giorno dopo la sua morte di suicidarsi nonostante in attesa del secondo figlio, per l'impossibilità di immaginare una vita senza colui il quale oltre ad averla amata, fù anche l'unico a entrare in punta di pennello, nella sua anima e descriverne ogni minima sfumatura.

Quello che mi affascina di questo grande autore, è che il suo genio è esattamente collegato alla dissolutezza della sua stessa vita, come se il suo essere "maledetto" ... maudit fosse l'unico mezzo per riuscire a vedere .. "cose che gli altri non potevano vedere.. " come lui stesso diceva; la bellezza dunque, filtrata dal suo essere, diviene interpretazione della realtà, di una realtà che spesso lo poneva agli occhi della gente come diverso, pazzo, strano..

Viene da riflettere, guardando il film interpretato da Andy Garcya.. I colori dell'anima , sul fatto che spesso il modo in cui gli altri recepiscono qualcosa di una persona, è sempre l'opposto di quello che poi la persona stessa è... spesso viene da pensare se la pazzia sia una cosa brutta o sia la strada per poter raggiungere la perfezione, la libertà, l'infinito...

domenica 21 settembre 2008

Neste dia 19 de Setembro faleceu a minha avo materna.
Ela tinha 94 anos.
Ela foi uma grande mulher!

giovedì 28 agosto 2008

La Vispa Teresa di Carlo Alberto Salustri detto Trilussa (1917)

Se questa è la storia
che sanno a memoria
i bimbi di un anno,
pochissimi sanno
che cosa le avvenne
quand'era ventenne.

Un giorno di festa
la vispa Teresa
uscendo di chiesa
si alzava la vesta
per farsi vedere
le calze schiffonne
che a tutte le donne
fa molto piacere.

Armando, il pittore,
vedendola bella,
le chiese il favore
di far da modella.
Teresa arrossì,
ma disse di sì.

"Verrete?" - "Verrò:
ma badi però..."
"Parola d'onore!"
rispose il pittore.

Il giorno seguente,
Armando, l'artista,
stringendo furente
la nuova conquista
gridava a distesa:
"T'ho presa, t'ho presa!"

A lui supplicando
Teresa gridò:
"Su, su, mi fai male
la spina dorsale:
mi lasci che anch'io
son figlia di Dio...

Se ha qualche programma
ne parli alla mamma..."
A tale minaccia
Armando tremò,
dischiuse le braccia,
ma quella restò.

Perduto l'onore,
sfumata la stima,
la vispa Teresa,
più vispa di prima,
per niente pentita,
per niente confusa,
capì che l'amore
non è che una scusa.

Per circa tre lustri
fu cara a parecchi:
fra giovani e vecchi,
oscuri ed illustri,
la vispa Teresa
fu presa e ripresa.

Contenta e giuliva
s'offriva e soffriva.
(La donna che s'offre.
se apostrofa l'esse,
ha tutto interesse
a dire che soffre.)

Ma giunta ai cinquanta,
con l'anima affranta,
col viso un po' tinto,
col resto un po' finto,
per torsi d'impaccio
dai prossimi acciacchi
apriva uno spaccio
di Sali eTabacchi.

Un giorno un cliente,
chiedendo un toscano
le porse la mano
così... casualmente.
Teresa la prese,
la strinse e gli chiese:
"Mi vuole sposare?
Farebbe un'affare!"

Ma lui, di rimando,
rispose: "No, no!...
Vivendo e fumando
che male ti fo'?
Confusa e pentita
Teresa arrossì,
Dischiuse le dita
e quello fuggì.

Ed ora Teresa,
pentita davvero,
non ha che un pensiero:
d'andarsene in chiesa.
Con l'anima stracca
si siede e stabacca,
offrendo al Signore
gli avanzi di un cuore
che batte la fiacca.

Ma, spesso, fissando
con l'occhio smarrito
la polvere gialla
che resta sul dito,
le sembra il detrito
di quella farfalla
che un giorno ghermiva
stringendola viva.

Così come allora,
Teresa risente
la voce innocente
che prega ed implora:
"Deh, lasciami! Anch'io
son figlia di Dio!"

"Fu proprio un bel caso!"
sospira Teresa,
fiutando la presa
che sale nel naso.
"Se qui non son lesta
mi scappa anche questa."

E fiuta, e rifiuta,
tossisce e sternuta:
il naso è una tromba
che squilla e rimbomba
e pare che l'eco
si butti allo spreco...

Tra un fiotto e un rimpianto,
tra un soffio e un eccì,
la vispa Teresa...
. . . . . . . . . . . . . . . .
lasciamola lì.

mercoledì 20 agosto 2008

Sobre uma noticia que li no clickfloripa

L'ASTEROIDE 2002 NT7
IN VIAGGIO VERSO LA TERRA



CNN
25 Luglio 2002

[l'asteroide 2002 NT7 - 23K .jpg]


L'asteroide 2002 NT7, scoperto il 5 Luglio scorso, attraverso il programma "Linear Observatory" del New Mexico, probabilmente il più grande "oggetto" che vaga nello spazio, sta viaggiando alla velocità di 28 chilometri al secondo verso la Terra.

La notizia è stata diffusa al 25-7-2002. Non è la prima volta che viene avvistato un corpo celeste diretto verso il nostro pianeta, ma sembra che questa volta il rischio sia serio; l'oggetto si troverebbe a 100 milioni di chilometri dalla Terra.
Circa 60 milioni di anni fa un asteroide di 10 chilometri cadde nella penisola dello Yucatan, in Messico ed estinse i dinosauri, ma non si trattava del primo evento; 200 milioni di anni prima un altro bolide celeste, con un diametro da sei a dodici chilometri, o il frammento di una cometa, colpì il nostro pianeta facendo sparire il 90 per cento delle 15.000 specie allora presenti sulla terra. Venne liberata l'energia di un milione di terremoti e si ebbero eruzioni vulcaniche che seppellirono la terra sotto tre metri di lava; nubi di polvere e cenere oscurarono la luce solare gettando Gaia nell’oscurità e nel freddo.
Più recente è l'impatto, che ha dato luogo al cratere nell'Arizona di 1,2 chilometri di diametro; circa 50 mila anni fa, di un corpo di 50 metri di diametro, avente una massa di qualche milione di tonnellate con una velocità compresa fra 35 mila e 70 mila chilometri l'ora. Sempre un asteroide potrebbe aver causato un repentino e ampio spostamento dei poli provocando l’istantaneo cambio di clima, un disgelo e la perdita di un continente 12.000 anni fa.
Molti i riferimenti alla caduta di corpi celesti nelle antiche scritture.
Secondo l’Apocalisse (8:8) di Giovanni una "massa ardente simile ad una montagna infuocata fu precipitata nel mare. Cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, che piombò su un terzo dei fiumi e delle sorgenti". La saga Sumera narra che un evento catastrofico si abbatté sulla terra causando un immane diluvio. Gli Dèi che volevano punire gli uomini e non potendo intervenire per impedire l’evento, profittarono dell’occasione per lasciare l’umanità in balia del loro destino; si radunarono in consiglio e decisero di non rivelare agli uomini quanto stava per accadere, lasciarono la terra e rimasero a osservare gli eventi. Il Dio Enki, contrario alla decisione, usando uno stratagemma istruì Utanapish, il Noè sumero, lo Ziusudra, a costruire la nave della salvezza.
I Maya hanno narrato e raffigurato l’evento nei loro codici, hanno anche previsto la fine del quinto sole, la nostra epoca, alla vigilia di Natale del 2012. La caduta di una stella dal cielo la si osserva su una pietra di Ica.
Oggi la notizia che un asteroide di due chilometri, la cui pericolosità è stata fissata a quota 0,06 della cosiddetta "Scala Palermo" (per la prima volta in positivo, indicando che l'impatto è possibile), percorre un’orbita di 837 giorni intorno al Sole con una traiettoria che incrocerà con la Terra. La massa è stimata in 13 miliardi di tonnellate ed alla velocità di 28 chilometri al secondo può sviluppare un’energia di un milione di megatoni, cioè cento volte l'intero arsenale atomico russo e americano.
L’impatto spazzerebbe via un continente e produrrebbe effetti globali sul clima e sulla biosfera. Un effetto terrificante nel clima terrestre per le prossime generazioni.
La possibilità, che l'asteroide possa terminare la sua corsa proprio contro la Terra, è piuttosto remota e improbabile. Le nuove osservazioni effettuate nell’arco di questo mese hanno stabilito, secondo la NASA, che non esiste nessuna possibilità che l’asteroide 2002 NT7 colpisca la Terra il primo febbraio del 2019; non viene escluso però che l’impatto si possa verificare nel febbraio del 2060. I prossimi diciotto mesi, afferma ancora la Nasa, saranno decisivi per determinare se 2002 NT7 possa davvero sconvolgere la vita sulla Terra.
La preoccupazione deriva dal fatto che questi corpi risentono delle perturbazioni indotte dagli altri corpi del sistema solare e quindi non è possibile calcolare, con assoluta precisione, quale sarà il loro percorso fra diciassette anni. Nel giugno scorso un altro telescopio privato aveva scoperto che un asteroide, grande quanto un campo da calcio, era passato a circa 135 mila chilometri dalla Terra, una distanza molto ravvicinata in termini astronomici, senza che nessuno se ne fosse accorto.
La combinazione fra i due eventi ha fornito l’occasione di rilanciare la polemica contro l'amministrazione Bush per aver deciso di tagliare i fondi pubblici alla Nasa e ai telescopi privati che scrutano lo spazio.
Negli ultimi 100 mila anni la terra è stata colpita otto volte da corpi celesti aventi una massa e velocità idonei a provocare uno spostamento dei poli. Ovvero da un corpo con un diametro di un chilometro, con un peso di miliardi di tonnellate e una velocità variabile da 25 a 30 chilometri al secondo: un asteroide. Si stima ne esistano oltre 900 con un diametro maggiore di un chilometro ma ne sono stati classificati solo quattrocento. Si muovono fra Marte e Giove, alcuni di loro hanno orbite eccentriche che intersecano periodicamente con quella terrestre. Gli oggetti, chiamati "Apollo" in seguito al nome assegnato al primo scoperto nel 1932, sono alimentati da corpi provenienti dalla fascia degli asteroidi che cambiano rotta, o da comete che si trasformano in asteroidi Apollo. Sono sotto osservazione costantemente perché l’impatto di uno di loro sviluppa un’energia uguale a quella di centomila testate nucleari da un megatone e sposta i poli con effetti distruttivi notevoli.
La probabilità di venire colpiti è una volta per ogni 250 mila anni. Gli studiosi lo avrebbero accertato dai 1.500 crateri di oltre 20 Km caduti sul pianeta negli ultimi 600 milioni di anni.
Inoltre la caduta di un asteroide di tale portata solleverebbe una grandissima quantità di polveri e di rottami nell'atmosfera che impiegherebbero molto tempo a sparire. In tale periodo il materiale in sospensione impedirebbe al Sole di scaldare il pianeta con le note conseguenze.
Negli ultimi anni sono stati avvistati e studiati molti oggetti "Apollo".

Nel 1972 un piccolo asteroide di qualche decina di metri di diametro giunse verso la Terra, ma l´atmosfera né impedì l'ingresso e il bolide si perse nello spazio.

Nel 1998 astronomi di Cambridge, nel Massachusetts, dopo aver annunciato che un asteroide del diametro di 1,6 chilometri avrebbe colpito la Terra nel 2028, furono costretti a ritrattare l'annuncio.

Il 28 gennaio del 2000 venne segnalato l’asteroide 2000 BF19 del diametro di 800 metri, che doveva entrare in collisione con la Terra nell'agosto del 2022, ma successivamente l’impatto fu spostato al 2050. Ha una traiettoria che lo porta a transitare ogni undici anni nei pressi della Terra, nell'incontro ravvicinato del 2022 sarà potenzialmente pericoloso. Si tratta del quinto asteroide, negli ultimi due anni, a presentare possibilità di impatto con la Terra.

Il 29 settembre del 2000 fu scoperto un altro asteroide chiamato 2000 SG344 con una lunghezza che varia dai trenta ai settanta metri. Dopo aver annunciato che aveva un probabilità su 500 di colpire la Terra nel settembre del 2030 gli scienziati hanno dichiarato che passerà a circa quattro milioni di chilometri dalla Terra. Soltanto il 16 settembre 2071 l'asteroide transiterà abbastanza vicino alla Terra da far nascere il rischio di un impatto con una probabilità su mille.

L’8 gennaio 2002 l’asteroide battezzato 2001 YB5, di 3-400 metri di larghezza, ha sfiorato il pianeta passando a una distanza pari a due volte quella Terra-Luna. Scoperto solo poche settimane prima poteva spazzare via un paese di media grandezza; ha brillato a tal punto da essere avvistato anche da semplici telescopi. Se avesse colpito la Terra avrebbe sprigionato la stessa quantità di energia di molte testate nucleari.
Il dato che preoccupa maggiormente è avvistare questi oggetti con largo anticipo. Cosa accadrebbe se un oggetto in rotta di collisione venisse segnalato in ritardo?

Secondo gli esperti non ci sarebbe abbastanza tempo per nessun tipo di iniziativa. Solo in venti o trent’anni saremo in grado di sviluppare una tecnologia in grado di deviare tali oggetti. Con i mezzi di cui disponiamo adesso siamo indifesi.
In seguito a ciò il governo inglese ha promesso di stanziare una somma per individuare anticipatamente tali oggetti e sulle contromisure da prendere nel caso di pericolo reale.
Per far questo però dovremo essere in grado di stabilire la morfologia degli asteroidi, in particolare quella del 2002 NT7 se si rivelasse una minaccia.
Stabilire per esempio se è composto come una roccia o da un mucchio di sassi. La tecnica per deviarlo sarebbe infatti molto diversa. Si potrebbe montare una grossa vela sull'asteroide sospinta dal sole e con una piccola spinta deviarne la traiettoria. Ma non si può mettere una vela su un asteroide composto da sassi.
Secondo gli astronomi la probabilità che l'asteroide ci colpisca è una su un milione; ma se l’evento si verificasse sarebbe auspicabile che l’oggetto cadesse sull’Antartide per creare meno danni all’umanità.
Il fatto più rassicurante è che l'asteroide sarà visibile ancora per diciotto mesi, un periodo più che sufficiente a determinarne il percorso futuro.
Sembra in ogni modo che in futuro dovremo guardarci da un simile pericolo, quindi qualcuno sciorina soluzioni al fine di distruggere o deviare l’eventuale intruso che si venisse a trovare in collisione con il nostro pianeta. Si pensa anche di colpire il pericoloso oggetto con una testata nucleare.
"Sarebbe un metodo rozzo e pericoloso - commenta il professore Milani dell’Università di Pisa - in questo modo si ridurrebbe in pezzi l'asteroide e il nostro pianeta sarebbe colpito in più punti. Bisogna fare come il giocatore di biliardo, usare delicatezza e precisione. Dargli prima una spinta perché eviti la Terra; poi lanciargli contro missili senza testata nucleare provocando prima piccoli spostamenti e quando siamo sicuri che i nostri calcoli sono esatti, colpirlo con un missile più potente."
Boris Kartogin, scienziato russo, direttore della Energomash, produttrice di razzi, pensa che per distruggere un asteroide possa essere usato un potente laser installato su di una stazione spaziale.
Hollywood ha analizzato a fondo il problema come tema di molti film, sottolineando che nel nostro futuro si prospettano scenari stile Armageddon. Un oggetto Apollo decreterà la nostra fine mentre gli Dèi resteranno a guardare? Riusciremo a trovare il Bruce Willis che ci salverà?

martedì 19 agosto 2008

Maurizio Laus segnala:

Il web 2.0 diventa strumento per orientarsi quando «scappa»

Toilette 2.0: il bagno pubblico diventa sociale

MizPee e Diaroogle mappano i bagni pubblici e li classificano. E ti avvertono sul telefonino su quello più vicino


NEW YORK - Di curiosi servizi web 2.0, più o meno utili, se ne vedono molti in giro per la Rete. Condividere le conoscenze o socializzare le proprie preferenze è stata la novità di questi ultimi anni di web. Spesso noti per i disservizi che generano qualora il software si inceppi (la webzine WebWare ha recentemente stilato i dieci più gravi malfunzionamenti del settore), quando funzionano regolarmente possono essere di estrema utilità. Come i social network Diaroogle e MizPee, ottimizzati per i telefonini, pensati per scovare i bagni pubblici nelle vicinanze degli utenti che hanno bisogno di una toilette in tempi rapidi e non sanno dove andare. Insomma un motore di ricerca per bagni pubblici basato sui meccanismi e le tecnologie più evolute del social network.

PRISON TOILET- E se Diaroogle, più recente e con meno dati condivisi, raccoglie al momento solo le segnalazioni sui bagni pubblici a stelle e strisce, MizPee ha un database europeo in cui compare anche Roma, città che ha dato i natali ai bagni pubblici che l'imperatore Cesare Vespasiano Augusto pensò bene di tassare. Gli utenti possono quindi classificare (da royal flush - bagno principesco - a prison toilet - gabinetto da galera - la gamma di voti possibili) e descrivere le toilette della propria zona e segnalarle su MizPee. L'utilizzo di GoogleMaps permette poi di visualizzare la mappa dei bagni con commenti e l'esplicita indicazione se la consumazione è condizione necessaria all'utilizzo della toilette o meno. Una rapida ricerca dal proprio cellulare permetterà di trovare rapidamente la migliore soluzione possibile anziché correre qua e là per le strade rimbalzando di negozio in negozio nella speranza di una destinazione comoda per le proprie terga. Come tutti i servizi 2.0 anche questi motori di ricerca per bagni pubblici hanno bisogno di una buona adesione da parte degli utenti per essere affidabili e aggiornati. Caricare la propria segnalazione d'altronde è semplice e veloce. Non resta che affrettarsi e diventare parte della comunità: in fondo prima o poi serve a tutti sapere dove andare a parare.

mercoledì 6 agosto 2008

06 de Agosto de 2008

Confissões de um ex-dependente de igreja

Por Paulo Brabo

Estocado em Fé e Crença

Outro dia um pastor observou que eu deveria confessar ao leitor impenitente da Bacia, que não tem como concluir isso lendo apenas o que escrevo, que não vou à igreja faz mais de dez anos. Ele dava a entender que essa confissão provocaria uma queda sensível na minha popularidade; percebi imediatamente que ele estava certo, e que mais cedo ou mais tarde teria, para podar os galhos da celebridade (porque a fama é uma espécie de compreensão), deixar de contornar indefinidamente o assunto.

Quanto mais penso na questão, no entanto, mais chego à conclusão que o que tenho de confessar é o contrário, e ao resto do mundo, não aos amigos que convivem com desenvoltura entre termos como gazofilácio, genuflexão, glossolalia e graça irresistível. Devo explicações à gente comum que vê o domingo, incrivelmente, como dia de descanso – dia de ir à praia, de andar de bicicleta no parque, de abraçar os amigos ao redor de um churrasco, de correr atrás de uma bola ou de encontrar a paz diante de uma lata de cerveja e uma tela radiante.

Preciso confessar que durante trinta anos fui consumidor de igreja. Durante trinta anos fui dependente de igreja e trafiquei na sua produção.

Devo confessar o mais grave, que durante esses anos abracei a crença (em nenhum momento abalizada pela Escritura ou pelo bom senso) que identificava a qualidade da minha fé com minha participação nas atividades – ao mesmo tempo inofensivas, bem-intencionadas e auto-centradas – de determinada agremiação. Em retrospecto continuo crendo em mais ou menos tudo que cria naquela época, porém essa crença confortante e peculiar (espiritualidade = participação na igreja institucional) fui obrigado contra a vontade, contra minha inclinação e contra a força do hábito, a abandonar.

Preciso deixar claro que não guardo daqueles anos qualquer rancor; de fato não trago deles nenhuma recordação que não esteja envolta em mantos de nostalgia e carinho. Ao contrário de alguns, não sinto de forma alguma ter sido abusado pela igreja institucional; sinto, ao invés disso, como se tivesse sido eu a abusar dela. Minha impressão clara não é ter sido prejudicado pela igreja, mas de tê-la usado de forma contínua e consistente para satisfazer meus próprios apetites – apetites por segurança, atenção, glória, entretenimento, aceitação.

Se hoje encaro aqueles dias como uma forma de dependência é porque acabei aceitando o fato de que a igreja como é experimentada – o conjunto de coisas, lugares, atividades e expectativas para as quais reservamos o nome genérico de igreja – representam um sistema de consumo como qualquer outro. As pessoas consomem igreja não apenas da forma que um dependente consome cocaína, mas da forma que adolescentes consomem telefones celulares e celebridades consomem atenção – isto é, com candura, com avidez, mas muitas vezes para o seu próprio prejuízo.

Todo sistema de consumo confere alguma legitimação, isto é fornece ao consumidor pequenas seguranças e pequenas premiações que fazem com que ele se sinta bem, sinta-se uma pessoa melhor (ou em condições privilegiadas) por estar desfrutando de um produto ou serviço de que – e isto é importante na lógica interna da coisa – não são todos que desfrutam.

As igrejas institucionais, por mais bem-intencionadas que sejam (e, creia-me, há muito mais gente bem-intencionada envolvida na criação e na sustentação delas do que seria de se supor) funcionam precisamente dessa maneira. Não é a toa que tanto a palavra quanto o conceito propaganda nasceram, historicamente falando, nos salões eclesiásticos. Se hoje há shopping centers e roupas de marca é porque a igreja inventou o conceito de propaganda e de consumo de massa. Foi a igreja a primeira a vender a idéia de que vestir determinada camisa e ser visto em determinada companhia demonstram eficazmente o seu valor como pessoa; foi a primeira a promover a noção simples (mas cujo tremendo poder as corporações acabaram descobrindo) de que o que você consome mostra que tipo de pessoa você é.

As pessoas que consomem igreja não têm em geral qualquer consciência de que estão se dobrando a um sistema de consumo, mas as evidências estão ali para quem quiser ver. A igreja não é um lugar a que se vai ou um grupo de pessoas que se abraça, mas uma marca que se veste, um produto que se consome continuamente. Tudo de bom que costumamos dizer sobre a igreja reflete, secretamente, essa nossa obsessão com o consumo – “o louvor foi uma benção”, “o sermão foi profundo”, “o coro cantou com perfeição”, “a palavra atingiu os corações”, “Deus falou comigo”. Em outra palavras, tudo que temos a dizer sobre a experiência da igreja são slogans. Na qualidade de consumidores, o que fazemos é retroalimentar nossa dependência, promovendo continuamente nosso produto na esperança de angariar mais consumidores e portanto mais legitimação.

O curioso, o verdadeiramente paradoxal, é que nada nesse sistema circular de consumo (ou em qualquer outro) tem qualquer relação com espiritualidade, com fé ou com a herança de Jesus. Ao contrário, sabemos ao certo que Jesus e os apóstolos bateram-se até a morte no esforço de demolir a tendência muito humana de encarcerar (isto é, satisfazer) os anseios emocionais e espirituais das pessoas em sistemas de consumo e legitimação (isto é, sistemas de controle).

O russo Leo Tolstoi acreditava que, diante da suprema singeleza do ensino de Jesus, levantar (e em seu nome!) uma máquina implacável e arbitrária como a igreja equivalia a restaurar o inferno depois que Jesus tornou o inferno obsoleto. De minha parte, vejo a igreja institucional como um refúgio construído por mãos humanas para nos proteger das terríveis liberdades e responsalidades dadas por Deus a cada mortal e que Jesus desempenhou de modo tão espetacular. Por outro lado, talvez esse refúgio seja ele mesmo o inferno.

No fim das contas você não encontrará na igreja nada que não seja inteiramente atraente e desejável, e aqui está grande parte do problema. Vá a um templo evangélico no domingo de manhã e o que vai encontrar é gente amável, respeitável, ordeira, de banho tomado, sorridente, perfumada e usando suas melhores roupas – e é preciso reconhecer que há um público para esse tipo irresistível de companhia. O bom-mocismo reinante é tamanho, na verdade, que não resta praticamente coisa alguma do escândalo inicial do evangelho. Enquanto descansamos nesse abraço comum a verdadeira igreja, onde estiver (e talvez exista apenas no futuro), estará por certo mais próxima do dono do bar, da vendedora de jogo do bicho, do travesti exausto da esquina, do divorciado com seu laptop, dos velhinhos que babam em desamparo e das crianças que alguém deixou para trás. Certamente não usará gravata e não terá orçamento anual nem endereço fixo.

Portanto nada tenho contra aquilo que a igreja diz, que é em muitos sentidos bom e justo, mas não tenho como continuar endossando aquilo que a igreja dá a entender – sua mensagem subliminar, por assim dizer, mas que fala muitas vezes mais alto do que qualquer outra voz. Com o discurso eclesiástico oficial eu poderia conviver indefinidamente (como de fato já fiz), mas seu meio é na verdade sua mensagem, e frequentar uma igreja é dar a entender:

1. Que aquela facção da igreja é de algum modo mais notável, e portanto mais legítima, do que todas as outras;
2. Que o modo genuíno de se exercer o cristianismo é estar presente nas reuniões regulares e demais atividades de determinada agremiação, ou seja, que a devoção é uma espécie de prêmio de assiduidade;
3. Que o conteúdo da crença é mais importante do que o desafio da fé;
4. Que o caminho do afastamento do mundo, segundo o exemplo de João Batista, é mais digno de imitação do que o caminho do envolvimento com o mundo, segundo a vida de Jesus;
5. Que o modo de vida baseado na busca circular pela legitimação é mais respeitável do que o das pessoas que conseguem viver sem recorrer a esses refrigérios;
6. Que o modo adequado de honrar a herança de Jesus é dançar em celebração ao redor do seu nome, ignorando em grande parte o que ele fez e diz.

Está confirmada, portanto, a ambivalência da minha posição em relação à igreja institucional. Por um lado, sinto falta dos seus confortos; por esse mesmo lado, respeito a inegável riqueza de sua herança cultural, que não gostaria de ver de modo algum apagada. Por outro lado, ressinto-me de que o nome singular de Jesus permaneça associado a um monstro burocrático no que tem de mais inofensivo e opressor no que tem de mais perverso, quando sua vida foi a de um matador de dragões dessa precisa natureza. Dito de outra forma, não tenho como condenar a permanência de alguma manifestação da igreja, mas não tenho como justificá-lo se você faz parte de uma.

Em janeiro de 1996 Walter Isaacson perguntou a Bill Gates a sua posição sobre espiritualidade e religião. Sua resposta entrará para os anais da infâmia – e não a dele. “Só em termos de alocação de recursos, a religião já não é coisa muito eficiente. Há muita coisa que eu poderia estar fazendo domingo de manhã”. Em resumo, o que dois mil anos de cristianismo institucional ensinaram ao homem mais antenado da terra é que religião é o que os cristãos fazem no domingo de manhã.

Só não ouse criticar o cara por sua visão rasa de espiritualidade. Fomos nós que demos essa impressão a ele, e só a nós cabe encontrar maneiras de provar que ele está errado.

Invente uma.

domenica 3 agosto 2008

Semana passada fui na casa de praia do meu Tio Mario, entre outros bichos ele tem um recinto com patos.
Estava la osservando quando o Everaldo, o caseiro, chegou trazendo um novo patinho ,na mesma hora que o soltou ele foi correndo no meio dos outros, procurando contacto com os seus similares e de improviso todos os patos se moviam como um corpo so.
Ontem foi na Igreja como sempre cheguei meia hora antes do começo do culto e sentei em um cantinho asim fiquei reparando os fieis chegando, quem sosinho, quem em companhia, cada grupo se collocava geometricamente o mais distante possivel dos outros, uns ate complimentavam mas de forma educada e distante, outros simplesmente olhavam no vazio e eu era em destes, claro!
Quem sabe o proximo culto o vou assistir gravado em um lap, dentro de um elevador de uma grande multinacional daqueles bem grandes aonde se pode collocar dez pessoas em 2 metros quadros sem que nenhum se fale o se entreolhe , o melhor entre estes dez, se existe, è o que solta um pum...... com um sorriso.
guido