venerdì 21 novembre 2008

Da : mahmag.org Gli Shahsevan: Nomadi! Banditi temibili, audaci e fieri


Farian Sabahi
Farian Sabahi Giornalista e scrittrice, ha studiato a Londra e Bologna, e insegna al master sull'immigrazione della Scuola di Direzione Aziendale dell'Università Bocconi di Milano. È autrice dei volumi Storia dell'Iran, The Literacy Corps in Pahlavi Iran, La pecora e il tappeto: economia tribale in Azerbaigian, ha pubblicato numerosi saggi, scrive sull'Islam e il Medio Oriente per Il Sole 24 Ore e trasmette su Radio Svizzera, Radio 24 e Radio Popolare.Fonte:Internet
«Sono figlia di un musulmano. Mio padre non mi ha fatto mai mettere il velo. Né a me, né a mia madre. Nemmeno alle mie zie iraniane che negli anni Settanta seguivano la moda italiana e francese, avevano le unghie laccate di rosso e pettinature che imitavano le dive del cinema. A impormi il velo per la prima volta sono stati gli ayatollah iraniani nel 1997, quando sono andata a trovare la nonna paterna molti anni dopo la Rivoluzione».Nata e cresciuta in Italia da madre piemontese e padre iraniano, Farian Sabahi è potuta entrare nelle moschee a intervistare i fedeli, cui ha voluto dare voce. Emerge come l’Europa offra ai musulmani l’opportunità di vivere la propria fede in una società democratica e laica. Non sempre, però, quest’opportunità è colta dagli immigrati, alle prese con la quotidianità e con le difficoltà nell’affrontare usi e costumi diversi.Bibliografia SinteticaLa pecora e il tappeto. I nomadi shahsevan nell'Azerbaigian iraniano, Ariele, 2000Storia dell'Iran, Bruno Mondadori, 2003Islam: l'identità inquieta dell'Europa. Viaggio tra i musulmani d'occidente, Il Saggiatore, 2006Reportage Persi nell'IranI pastori erranti sono più di un milione, divisi in 96 tribù. Con la vecchia Persia erano in lotta, oggi vivono ai margini. Figli d'una civiltà affascinante e segreta. Nascosta come le trame di un tappeto.di:Seyed Farian SabahiQuando la mia bisnonna Zoleikha abitava ad Ardabil, accanto al Balikhly Chay (il torrente della trota dorata), i nomadi della confederazione Shahsevan, della regione di frontiera dell'Azerbaigian iraniano, si erano abbattuti sulla città come un flagello, armati fino ai denti e in groppa a destrieri velocissimi, violando e saccheggiando le abitazioni. Piangendo la sorte del padre, capo dei mercanti del bazar derubato di ogni suo bene, Zoleikha ricordava il rumore assordante degli zoccoli dei cavalli in corsa, le grida della gente che fuggiva in ogni direzione, le suppliche e le invocazioni di misericordia. Ma tutto era stato inutile di fronte a quei banditi spietati. Nelle serate particolarmente fredde, grandi e bambini si infilavano sotto al korsi per scaldarsi presso il braciere, coperto da un tavolo basso rivestito da trapunte e tessuti pesanti. E Zoleikha raccontava di quando i banditi rubarono un tappeto senza accorgersi che vi era avvolto un neonato addormentato. I nomadi Shahsevan tornarono nella notte, incuranti della bufera, per restituire il bimbo alla madre in lacrime, riportandole come risarcimento anche tutto ciò che avevano sottratto. Tramandate di generazione in generazione, le storie di Zoleikha descrivono gli Shahsevan come i protagonisti di una fiaba: banditi temibili, audaci e fieri, abituati a vivere in assoluta libertà. Tuttora costituiscono uno dei gruppi nomadi dell'Iran, dediti alla pastorizia. L'allevamento di ovini e caprini consente lo sfruttamento di territori marginali e la produzione di carne per il mercato domestico, nel rispetto della famiglia e di un'organizzazione sociale tradizionale. Tenuto conto che la popolazione attuale della Repubblica Islamica dell'Iran è di 62 milioni, quanti sono i nomadi? E come vivono? Secondo gli ultimi dati disponibili, risalenti al 1987, sono 1.152.099, suddivisi in 180.223 famiglie e in 96 tribù, cui si aggiungono 547 clan indipendenti. Oltre agli Shahsevan, i gruppi nomadi più famosi sono i Curdi, i Baluci, i Bakhtiari, i Luri, i Qashqai, i Khamseh, i Turcomanni e i Basseri. Censirli non è un compito facile, considerato che con l'avvicendarsi delle stagioni si spostano, assieme alle greggi, per almeno 500 chilometri, sempre alla ricerca di prati rigogliosi, non contesi da altri pastori. Occorre poi tenere presente che alcune tribù sfuggono ai controlli governativi, perché vivono in aree difficilmente accessibili. La vita dei nomadi non è cambiata di molto con il passare dei secoli. Le innovazioni tecnologiche hanno comunque portato qualche beneficio. Ormai, vari gruppi spostano le greggi con i camion. Si servono di rimorchi anche per trasportare le bestie nella capitale e nelle altre città principali, dove avviene la macellazione. Da buoni levantini, cercano ovviamente di concludere la vendita nel periodo in cui la domanda di carne è alta, ovvero attorno alle festività di Noruz, il capo- danno del calendario iraniano, di origine preislamica, che coincide con il nostro solstizio di primavera. Da quando ci sono i camion, non si rischia più la pelle sulle montagne. Le vittime erano bambini e anziani, ma anche le caprette più avventurose che, da certi picchi, non riuscivano più a ricongiungersi al gruppo. Anche se, in Iran e nel resto del Medio Oriente, i nomadi si avvantaggiano delle nuove tecnologie, la loro società rimane molto tradizionale. Eppure, non tutti i gruppi vantano una struttura tribale, dove per tribù si intende un'organizzazione sociale antitetica a quello di uno Stato centralizzato. Per esempio, nel Fars, la regione centrale dell'Iran, i Qashqai sono nomadi e organizzati in tribù; la seconda caratteristica li accomuna ai Mamasani, che però sono sedentari. Un caso a sé sono poi i Komachi dell'area di Kirman: conducono una vita nomade pur non avendo una struttura tribale. Questo anche perché non hanno mai attirato l'attenzione del governo, e quindi non sono mai stati coinvolti nelle politiche di sedentarizzazione attuate dagli scià della dinastia Pahlavi (1925-1979). Sebbene molti sovrani dell'Iran avessero origini tribali o fossero saliti al trono grazie all'aiuto di una qualche confederazione, in Iran la relazione tra Stato e nomadi è sempre stata caratterizzata da tensioni. Gli scià Pahlavi portarono avanti le loro politiche anche attraverso l'esilio dei leader tribali più importanti. Per esempio Malek Mansur, uno dei capi ereditari dei Qashqai, fu costretto a trascorrere otto anni all'estero. Si laureò in Agraria all'Università di Reading, nel Regno Unito, e poi in Giurisprudenza a Oxford. Tornò in patria solamente all'inizio degli anni Cinquanta. La sua storia fu narrata al National Geographic Magazine da una coppia di americani che, per un periodo, erano stati suoi ospiti. Dai loro racconti emerge il ritratto di un eccellente padrone di casa. Malek offrì alla coppia tutti i "lussi" della vita tribale, dal caviale a colazione alla Coca Cola in casse di ghiaccio, trasportate a dorso di mulo attraverso i pascoli estivi. Negli anni Sessanta, i documenti ufficiali non riconoscevano nemmeno l'esistenza di tribù nomadi: l'Iran doveva diventare uno Stato moderno e civilizzato, e la presenza di popolazioni non stanziali era non solo incompatibile con questo scopo, ma addirittura disonorevole. Una massiccia propaganda governativa fu avviata allo scopo di denigrare le tribù. Ma gli stranieri che, in quegli anni, trascorsero qualche tempo sotto le tende dei nomadi dell'Iran fecero notare l'assenza di malattie, la salubrità della vita all'aria aperta e le condizioni igieniche accettabili. Ogni mattina pentole e padelle venivano trasportate al torrente e strofinate con la sabbia, poi lasciate in acqua bollente per diversi minuti. Il latte veniva coperto mentre si raffreddava, e il pavimento della tenda adibita a cucina veniva scopato più volte al giorno con rametti. L'unico vasellame a non essere lavato quotidianamente era la malconcia pentola di pietra usata per preparare lo yogurt. In seguito al boom petrolifero della metà degli anni Settanta, l'attività di pastorizia dei nomadi iraniani venne minacciata dall'aumento delle importazioni di carne e prodotti caseari. Le forniture provenienti dall'estero non soddisfacevano però del tutto la domanda: il governo importava infatti carne di vitello, ma le famiglie continuavano a preferire l'agnello di produzione domestica, proveniente quasi esclusivamente dai pascoli dei nomadi. Queste politiche impoverirono comunque le tribù, obbligandole a una vita stanziale: dovettero insediarsi in villaggi o spostarsi in massa nelle città. Mohammad Reza Shah aveva le idee chiare: l'Iran doveva diventare un Paese moderno, e la vita tribale restare un ricordo vivo solo nel folclore. Nel 1977 la splendida città di Isfahan divenne teatro di un festival popolare, che avrebbe dovuto celebrare la sconfitta dei nomadi e delle altre minoranze da parte del regime. Gli spettatori vennero intrattenuti con danze in genere riservate ai matrimoni e ad altri eventi sociali. Estrapolati dal loro contesto, eseguiti da fanciulle truccate in modo vistoso, i balli si tradussero in una messa in scena di cattivo gusto, scatenando le ire di alcuni dei presenti di origine tribale. Con la rivoluzione islamica del 1979, la situazione cambiò. Al pari degli abitanti delle zone rurali, i nomadi non avevano partecipato al rovesciamento dei Pahlavi. Si era trattato infatti di un fenomeno prettamente urbano, che aveva preso piede nelle moschee e nei bazar. Abituate a combattere, le tribù credevano nelle capacità militari dell'esercito dello scià, e accolsero con diffidenza la notizia del crollo della monarchia. Salito al potere, l'Ayatollah Khomeini definì i nomadi "tesori della rivoluzione" e "quarta forza armata", per aver sempre ricoperto l'importante ruolo di difesa dei confini nazionali. La rivoluzione del 1979 portò quindi a una riabilitazione delle tribù, proprio perché emarginate e oppresse dal regime precedente; un po' come accadde ai mullah, la classe religiosa musulmana. Nonostante la sistematica opera di detribalizzazione messa in atto da Reza Shah e da suo figlio Mohammad Reza Pahlavi, ancora oggi in alcune parti della Repubblica Islamica sopravvive un'organizzazione sociale tipica della tribù. Cambiano i tempi, ma i nomadi continuano a trascorrere la calda estate sui monti e l'inverno in regioni più temperate. Il ritmo è dettato dalle stagioni, dai matrimoni, dalle circoncisioni dei neonati di sesso maschile, dall'accoppiamento dei capi di bestiame, dalla nascita degli agnelli, dalla tosatura, dalla preparazione e tintura della lana con prodotti vegetali. La lana serve a tessere coperte o tappeti da stendere sui pavimenti delle tende, per impedire all'umidità di penetrare nelle ossa. Oppure per realizzare le sacche con cui i nomadi trasportano i loro beni durante le migrazioni stagionali; le selle per muli e cavalli; i sofreh, semplici tessuti rettangolari utilizzati come tovaglie. Ed è forse per i tappeti e per gli altri prodotti tessili, ormai ricercatissimi dagli occidentali, che i nomadi iraniani sono usciti dal limbo in cui li aveva relegati la storia, assurgendo a simbolo di un popolo.Due cuori e una tenda Dare e prendere, vendere e comprare, sono i termini usati dai nomadi Shahsevan nell'organizzare un matrimonio. Delle transazioni fanno parte il prezzo della sposa, la dote differita e il baule nuziale. Pagato dal ragazzo al suocero, il prezzo della sposa è il corrispettivo della verginità della fidanzata; può essere revocato se lei non è più illibata, ma non se è sterile o se muore prematuramente. Soltanto presso alcune tribù Shahsevan e nei matrimoni al di fuori del gruppo, il prezzo della sposa consiste in uno o due cammelli oppure 10-20 pecore (raramente denaro) consegnati alla coppia dopo le nozze. Per indurre il padre a concedere la mano della figlia, tra il fidanzamento e il matrimonio i genitori del ragazzo offrono oggetti di valore ben superiore al prezzo della sposa. Non è però questo a determinare l'importanza delle nozze, quanto la durata e la ricchezza dei festeggiamenti, i doni della famiglia dello sposo e il baule nuziale: custodisce le coperte, la biancheria da letto, un samovar e una lampada, e il suo valore eccede generalmente quello dei regali. La dote differita è un deterrente al divorzio: il marito dovrà pagarla solo se, un giorno, decidesse di abbandonare la moglie. Durante il primo anno di matrimonio, e comunque finché non ha partorito un figlio preferibilmente maschio, la sposa non può rivolgere parola in pubblico né al marito, né ai suoceri. Le è permesso chiacchierare con le cognate e con le altre ragazze dell'accampamento. Solo quando sarà madre, e dunque a pieno titolo membro della società femminile, i suoi rapporti in pubblico con il consorte saranno meno formali. Per almeno cinque anni lo sposo lavorerà alle dipendenze del padre o del fratello maggiore, mentre la moglie imparerà la gestione della casa. Secondo gli Shahsevan, il matrimonio è l'unico contesto in cui le relazioni sessuali sono lecite. Matrimonio significa prole, ovvero sicurezza economica, alleanze politiche e rispetto da parte della tribù. La cerimonia è tra le poche occasioni per mostrare le proprie possibilità economiche e rinnovare eventuali alleanze. Il divorzio è disapprovato. Oltre all'adulterio, l'unico motivo fondato per sciogliere l'unione è l'infertilità della donna. In questo caso, però, di solito si evita il divorzio: se le finanze lo permettono, il marito preferisce prendere una seconda moglie.

domenica 16 novembre 2008

Piano,solo


Stamani su sky ho assistito al  film Piano solo.
Non so cosa pensino i più di questo film, a me è piaciuto tantissimo.
Gli attori, la fotografia, tutto specialmente perfetto a fare da contorno ad una musica dolce e violentemente malinconica che narra la storia vera di Luca Flores geniale pianista Jazz che vive il dolore della perdita della mamma in tenera età tra l' interiorità della musica e la malattia mentale.
Nemmeno l'amore e i successi professionali che lo porteranno a suanare con i più grandi mostri sacri contemporanei della musica Jazz riusciranno ad attenuare questa dolorosa fiamma che lo divora dentro fino a portarlo al suicidio.
Nonostante tutto non riesco a considerarlo un film triste, perchè è una storia piena di sentimenti veri e forti e di alti e bassi che alla fine si compensano, come del resto è la vera genialità che quasi sempre porta con se incredibili fragilità.
Questo film per tutta la sua durata mi ha tenuto compagnia, mi ha fatto viaggiare indietro nel tempo mi ha riportato le immagini di mia mamma da bambino, mi ha fatto riemergere nella memoria il viso di un amico da me molto amato che ha lo stesso nome del protagonista " Luca" e che purtroppo non vedo da tempo, mi ha fatto capire di più un mio amato parente che pure lui naviga immerso nei sentimenti cercando di trovare una risposta alle inspiegabili domande esistenziali della vita e infine mi ha fatto conoscere un grande artista ed un genere musicale che fino ad oggi mi erano sfuggiti!
guido.

giovedì 6 novembre 2008

QUALCUNO ERA COMUNISTA - GIORGIO GABER


Uh? No, non è vero, io non ho niente da rimproverarmi. Voglio dire... non mi sembra di aver fatto delle cose gravi.La mia vita? Una vita normale. Non ho mai rubato, neanche in casa da piccolo, non ho ammazzato nessuno, figuriamoci!... Qualche atto impuro ma è normale no?Lavoro, ho una famiglia, pago le tasse. Non mi sembra di avere delle colpe... non vado neanche a caccia!Uh? Ah, voi parlavate di prima! Ah... ma prima... ma prima mi sono comportato come tutti.Come mi vestivo? Mi vestivo, mi vestivo come ora… beh non proprio come ora, un po’ più… sì, jeans, maglione, l’eskimo. Perché? Non va bene? Era comodo.Cosa cantavo? Questa poi, volete sapere cosa cantavo. Ma sì certo, anche canzoni popolari, sì… “Ciao bella ciao”. Devo parlar più forte? Sì, “Ciao bella ciao” l’ho cantata, d’accordo, e anche l’“Internazionale”, però in coro eh!Sì, quello sì, lo ammetto, sì, ci sono andato, sì, li ho visti anch’io gli Inti Illimani... però non ho pianto!Come? Se in camera ho delle foto? Che discorsi, certo, le foto dei miei genitori, mia moglie, mia…Manifesti? Non mi pare... Forse uno, piccolo proprio... Che Ghevara. Ma che cos’è, un processo questo qui?No, no, no, io quello no, io il pugno non l’ho mai fatto, il pugno no, mai. Beh insomma, una volta ma… un pugnettino, rapido proprio…Come? Se ero comunista? Eh. Mi piacciono le domande dirette! Volete sapere se ero comunista? No, no finalmente perché adesso non ne parla più nessuno, tutti fanno finta di niente e invece è giusto chiarirle queste cose, una volta per tutte, ohhh!Se ero comunista. Mah! In che senso? No, voglio dire…Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia.Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no.Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il Paradiso Terrestre.Qualcuno era comunista perché si sentiva solo.Qualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolica.Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche… lo esigevano tutti.Qualcuno era comunista perché “La Storia è dalla nostra parte!”.Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto.Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto.Qualcuno era comunista perché prima era fascista.Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontano.Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo.Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari.Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio.Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro.Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio.Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio.Qualcuno era comunista perché la borghesia il proletariato la lotta di classe. Facile no?Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopo domani sicuramente…Qualcuno era comunista perché “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung”.Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre.Qualcuno era comunista perché guardava sempre Rai Tre.Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto.Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il “materialismo dialettico” per il “Vangelo secondo Lenin”.Qualcuno era comunista perché era convinto d’avere dietro di sé la classe operaia.Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri.Qualcuno era comunista perché c’era il grande Partito Comunista.Qualcuno era comunista nonostante ci fosse il grande Partito Comunista.Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio.Qualcuno era comunista perché abbiamo il peggiore Partito Socialista d’Europa.Qualcuno era comunista perché lo Stato peggio che da noi solo l’Uganda.Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi viscidi e ruffiani.Qualcuno era comunista perché piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera.Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.Qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altro.Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.Due miserie in un corpo solo.


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